Recensioni

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La religione dei consumi” di Ritzer

“Nelle epoche precedenti erano i mezzi di produzione a predominare, ma al giorno d’oggi la supremazia è passata ai mezzi di consumo, così che il centro commeciale ha rimpiazzato la fabbrica come struttura caratteristica dell’epoca […]”. Questa citazione racchiude l’intento ultimo del saggio di George Ritzer La religione dei consumi: il docente dell’Università del Maryland si propone infatti di indagare l’aspetto rituale che il consumismo è venuto ad assumere in questi ultimi anni. Per farlo, egli focalizza la propria attenzione sui luoghi nei quali il consumo avviene, lasciando in secondo piano la figura del consumatore e del consumo inteso in senso lato. Un’attenta osservazione sociologica rivela come quest’ultimo avvenga secondo dinamiche rituali che, per certi versi, richiamano quelle tipiche della religione. Fondamentale nel capitalismo contemporaneo è dunque l’incanto che da queste pratiche deriva, e che le “cattedrali del consumo” vengono a creare. Si tratta di un modello tipicamente americano, il quale è stato esportato, grazie alla globalizzazione, in tutti i paesi toccati dalla cosiddetta civilizzazione occidentale, e prevede che ogni luogo pubblico muti la propria struttura in senso consumistico. Impianti sportivi, musei, ospedali, università, le stesse abitazioni private sono invasi dalla pubblicità, nonchè dotati di innumerevoli strumenti, i quali in fin dei conti ci impongono il consumo come unico modus vivendi.  La prassi che ha come risultato prima la creazione, poi l’esportazione di questo incanto, funziona in base a delle invarianti, potenzialmente reiterabili all’infinito: regolarità, prevedibilità e ripetitività sono gli elementi irrinunciabili per qualsiasi cattedrale del consumo, che hanno come risultato immediato un potere attrattivo indiscusso nei confronti del consumatore. Tuttavia, secondo Ritzer, non bisogna dimenticare l’altro lato della medaglia, apparentemente lucente e priva di ombre. Se la razionalizzazione forzata del funzionamento dei luoghi del consumo crea l’incanto che serve a vendere più facilmente, d’altra parte crea disincanto, perchè quel tipo di “magia” proposta appare immediatamente come posticcia, falsa. L’autore analizza l’effetto psicologico che questi centri esercitano nei confronti di chi li popola, e nel fare questo scopre come l’ottimismo forzato, la pulizia e la razionalità estrema che li contraddistingue svelino il loro carattere ingannevole, che causa disincanto. Qui Ritzer assume come propria, senza peraltro citarla, l’analisi dialettica che Benjamin ha compiuto nei Passagen, opera nella quale era proprio quell’incanto creato dal capitalismo a venire svelato come intrinsecamente contraddittorio. Il problema è che il paragone tra i due autori si ferma qui, perchè Ritzer evita accuratamente di portare il suo discorso ad un punto risolutivo, muovendosi troppo superficialmente sull’insidiosa selva concettuale nella quale ha scelto di addentrarsi. Il saggio ha un tema interessante ed originale, e presenta alcuni aspetti positivi, come l’abbondanza di fonti e citazioni e la descrizione dettagliata di pratiche commerciali contemporanee, diffuse negli Stati Uniti e non ancora esportate in Europa. Oltre a questo, è da notare una certa attenzione allo sviluppo storico del capitalismo americano, che arricchisce il valore informativo del testo. La tecnica, tipicamente analitica, della ripetizione e del riassunto facilita la lettura, anche se a volte essa risulta vagamente sgradevole a causa delle numerose ripetizioni e ridondanze. Sicuramente si tratta di un testo interessante per chi voglia approfondire gli aspetti sociologici che caratterizzano i luoghi descritti, ma resta carente dal punto di vista teorico e concettuale. Per questo motivo, alla fine della lettura rimane un pò l’amaro in bocca, perchè gli spunti filosoficamente più interessanti sono lasciati a se stessi, non vengono mai analizzati fino in fondo pur essendo, in potenza, molto utili per capire il nuovo volto che il capitalismo occidentale ha assunto negli ultimi anni.

Dalia Nera” di Ellroy

“Non l’ho mai conosciuta da viva”. Con questa frase perentoria si apre il romanzo di Ellroy, e ne rivela il cuore pulsante. Ciò che è stata la vita di Elizabeth Short non è, di per sé, una notizia: è la solita storia di un’altra ragazzina di provincia che sogna di fare l’attrice, e si trova invece a far parte di quell’informe massa di falliti dei quali Elizabeth Short, alla fine degli anni ’40, è patria indiscussa. E’ la sua morte ad essere motivo di scandalo, le condizioni in cui il corpo è ridotto, le orrende torture a cui la ragazza è stata sottoposta. Questi elementi portano il caso Short sulla bocca di tutti. Loew, ambizioso procuratore distrettuale, sente profumo di gloria e affida il caso ad una coppia di agenti da copertina, con una notevole operazione mediatica. Lee Blanchard, ex peso massimo pluridecorato, soprannominato “Fuoco”, e Dwight “Bucky” Bleichert, ex medioleggero da poco entrato nella polizia, detto “Ghiaccio”, sono i prescelti.

Fuoco e Ghiaccio devono dunque risolvere il caso Short, ma ben presto quella che negli intenti dei piani alti dovrebbe essere una parata trionfale, si trasforma in una discesa all’inferno. I due agenti, già invischiati per conto loro in un losco ménage à trois con una ragazza di nome Kay, si ritrovano immersi in un caso che va ben oltre una classica caccia all’uomo, la cui soluzione getterà una luce nuova, e non certo positiva, sui protagonisti, sul distretto di polizia e sull’America di quel tempo. Proprio per questo il romanzo di Ellroy, tratto da una storia vera, è stato definito a ragione uno dei capolavori della letteratura hard boiled. Da un lato, egli resta strettamente fedele alla tradizione del genere, che prevede una serie di invarianti come il punto di vista di uno sbirro-narratore (in questo caso Bleichert) ed una trama molto complessa, che nei capitoli conclusivi culmina in una serie di colpi di scena. Dall’altro l’autore riesce a dare un respiro più ampio alla sua storia, fornendoci un memorabile spaccato delle oscure forze che si agitano nell’America del secondo dopoguerra, delle quali Los Angeles è vista come punto catalizzatore. E non a torto. Nel sogno fittizio di Hollywood, nel becero sventolare lo slogan everybody can do it, il sogno americano si svela per quello che è realmente: uno specchio per le allodole, un incubo fatto di lustrini e paillette. In questo senso, i personaggi di Ellory restano ben carattarezzati e completamente umani, pur essendo in effetti dei modelli applicabili all’infinito. Così al fianco di figure classiche come il procuratore distrettuale senza scrupoli, lo sbirro disincantato e la femme fatale si innestano perfettamente altri personaggi la cui psicologia è più complessa, su tutti i componenti della famiglia Sprague. Essi sono il prisma della narrazione, dal quale la luce del male che abita la città degli angeli irradia i suoi raggi più oscuri.

Ma se la società nella quale viviamo oggi sta in un rapporto di filiazione diretta con quella che lo sguardo spietato e pessimista di Ellroy ci descrive, si capisce come l’hard boiled sia un genere dotato di potenzialità che la critica tende ad ignorare. Lungi dall’essere una disarmante constatazione che vede la corruzione come unica forza dominante nella realtà, un romanzo come Dalia Nera tratta una dinamica che va ben al di là della sua pur riuscita ambientazione storica. Il respiro esistenziale di questa opera abbraccia il lettore, mostrandogli come le ombre siano più fitte proprio là, dove le luci sono più intense.

Böse Philosophen” di Blom

La storia della filosofia non è mai stata estranea a mode, tendenze e verdetti, a volte emessi avventatamente. Uno di questi è che l’illuminismo ha perso la propria battaglia per la sopravvivenza. Nomi come d’Holbac, d’Alembert e Grimm non appartengono più al dibattito contemporaneo, e se non fosse per Diderot e, in parte, per Voltaire, il loro pensiero sarebbe già completamente liquidato. Tutto comincia circa 200 anni or sono, nel salotto parigino del barone d’Holbach. In quel circolo culturale, oltre agli illuministi, gravitavano personalità dotate di uno spessore culturale internazionale, come lo scozzese David Hume ed il nostro Cesare Beccaria.
Da quel fecondo ambiente emerse poi una grande personalità, la cui fama oscurò quelli che un tempo furono suoi amici, diventati nemici dopo gli sconvolgimenti politici che attraversarono la Francia in quel periodo: si tratta di Rousseau. Prima il suo pensiero fu indicato dai rivoluzionari come fonte di ispirazione, poi la sua concezione della natura servì ai romantici per muovere le critiche più feroci contro l’illuminismo stesso. I “cattivi filosofi” a cui si riferisce il titolo del libro di Philipp Blom sono loro, gli sconfitti del circolo d’Holbach, dei quali lo storico tedesco ci vuole raccontare la storia. “Böse Philosophen”, uscito l’anno scorso in Germania e non ancora tradotto in italiano, è scritto infatti in un coinvolgente stile narrativo, che se da una parte è volto a rendere evidente il legame tra i costrutti teorici e la vita pratica degli illuministi, dall’altro è una maniera divulgativa di rendere contenuti storici e filosofici. Blom è convinto che questi intellettuali avessero sviluppato delle teorie avveniristiche, non meritando in alcun modo quell’oblio che la storia delle filosofia ha riservato loro. L’ambizioso obiettivo che il tedesco si prefigge è, in questo senso, ribaltare tale verdetto storico. Egli concentra la sua attenzione sul salotto d’Holbach e sui filosofi che lo popolarono tra gli anni ’50 e ’60 del XVIII secolo. Descrive accuratamente il ruolo specifico che ogni membro del circolo venne ad assumere, e ne illustra con chiarezza le visioni politiche ed imprese letterarie, culmine delle quali è sicuramente la stesura dell’Encyclopédie da parte di d’Alambert e Diderot. L’autore non disdegna di trattare anche l’influsso giornalistico che gli illuministi ebbero sugli intellettuali parigini del tempo, e di parlare dei loro nemici, su tutti la chiesa e le forze politiche.
Il punto di rottura con la vulgata filosofica, ancora oggi largamente diffusa, sta nel giudizio di valore che Blom esprime riguardo a quel circolo intellettuale: in esso non c’è spazio per alcuna chiacchera da salotto fine a se stessa. Al contrario, fu proprio lì che si posero le basi filosofiche per una rinascita del pensiero radicale, tanto che la polizia francese inviò delle spie che riferissero eventuali discorsi volti alla sovversione. Il segreto custodito in quel salotto, dimenticato dalla storiografia filosofica ufficiale, è nientemeno che l’ateismo, l’ostilità verso il cristianesimo e la fede che col tempo sarebbe diventata una conquista intellettuale duratura. A casa d’Holbach si sono uditi discorsi che anticipavano concezioni del mondo che saranno, un secolo più tardi, fatte proprie da Darwin, nel segno di un materialismo tipico dell’illuminismo radicale. In questo senso, la rivoluzione francese è intesa come regressione, perché rifiutò l’ateismo e sostituì al cristianesimo un culto statale della ragione. Blom vuole dunque mostrare come, in realtà, le idee di Rousseau fossero in definitiva più conservatrici, sul piano religioso, rispetto a quelle dei suoi ex compagni di salotto, che vengono presentati come coraggiosi ispiratori ante litteram di quel grido di dolore con il quale Nietzsche sconvolse il mondo alla fine dell’800: “Dio è morto!”.

Trilobiti” di Pancake

A volte grandi uomini nascono in luoghi impensabili. Penso a Faulkner, nato a New Albany, 7000 anime nel cuore del Mississipi, o a Twain, nato ad Hannibal, cittadina sperduta nel nord-est del Missouri. Si tratta di scrittori che resteranno, con merito, nella storia della letteratura, perché sono riusciti nell’impresa di dare un respiro universale alle loro storie di provincia, ambientate in luoghi che richiamano quelli in cui sono cresciuti. D’altronde, come ci insegna De Andrè, “non tutti nella capitale/sbocciano i fiori del male”. Per questo motivo, non stupisce affatto scoprire che Breece D’J Pancake è nato a South Charleston, nel West Virginia: fosse cresciuto in una metropoli probabilmente non avrebbe scritto quei dodici capolavori che sono i racconti di cui si compone il suo unico libro, Trilobiti. Dalla sua penna non uscirà più alcuna parola, perché si è suicidato a soli 26 anni, entrando a far parte di quel pantheon di artisti morti troppo giovani, ai quali la prematura dipartita ha garantito una gloria pressoché imperitura. Ma in questa sede non mi interrogherò sulla correttezza di questa operazione, né cercherò di capire i motivi che hanno portato Pancake ad uccidersi: quelli li sanno solo Breece e la canna della sua pistola. Il modo più onesto di onorare la sua memoria è parlare di ciò che ci ha lasciato, delle parole che ha deciso di salvare dall’oblio inevitabile che avvolge tutto ciò che si trova nel tempo. Esso è il primo dei grandi temi che Pancake affronta nei suoi racconti: il tempo, al cospetto del quale l’umanità intera non è che un brevissimo capitolo, un passaggio trascurabile. I personaggi che popolano i racconti hanno a che fare, volenti o nolenti, con la coscienza di quanto sia effimero il nostro affannarsi, di come tutto ciò che vive sia necessariamente destinato a morire. E se per un istante, nel paragrafo che conclude il primo racconto da cui il libro trae il titolo, esso sembra quasi poter essere una dimensione di rifugio (“Sento che la mia paura si allontana in cerchi concentrici attraverso il tempo, per un milione di anni”), rimane comunque un tiranno, il quale costringe l’uomo in uno stato di perenne coscienza della perdita. Il lutto non elaborato, la scomparsa delle persone care: questo è un altro tema predominante nei racconti di Pancake.

Il ragazzo che non riesce a dimenticare l’amico caduto in battaglia; la donna che piange ancora i genitori, morti in un incidente molti anni prima; il tempo ci strappa le persone che amiamo, ci lascia da soli di fronte ai nostri fantasmi. E’ un pessimismo cosmico quello che permea lo stile asciutto e lapidario di Trilobiti, all’interno del quale non c’è spazio per lanascita ma solo per la sua negazione, che sia la morte o l’aborto. La natura del West Virginia, che scorre davanti ai nostri occhi e prende vita attraverso il punto di vista degli animali stessi, è violata dall’uomo che con le sue miniere l’ha trasformata da fonte di vita a fonte di morte, che aleggia nella tosse malsana da cui i personaggi di Pancake sono spesso afflitti. Questi assomigliano, talvolta, a burattini privi di vita: si muovono più per inerzia e per abitudine che per un effettivo impulso vitale. I lavoratori che Pancake ci presenta sono minatori, meccanici, camionisti, camerieri: in loro non si riscontra alcuna qualità positiva, alcuna speranza né nobilitazione attraverso il lavoro umile. Non c’è spazio in Trilobiti per un’epica dei bassifondi, per un elogio della semplicità. Il loro tirare avanti deriva da una legge naturale e la loro vita assomiglia alla insensata lotta dei galli descritta ne L’attaccabrighe. Il sogno di cambiare radicalmente la propria dimensione è presente in questi uomini ma si scontra puntualmente con la spietata realtà dei fatti, che si abbatte come una scure su ogni possibilità di vivere il futuro. I personaggi di Pancake, come il protagonista di Una stanza per sempre, sono bloccati in un eterno presente che racchiude in sé la memoria storica di ciò che è stato. Ma questo ripensare al passato è accompagnato dal dolore della perdita e dunque non è un rifugio efficace. In questo senso, la famiglia ha un ruolo tanto decisivo quanto ambivalente: essa è ciò che permette all’uomo di sentirsi parte di quel costante scorrere del tempo che investe tutto ciò che esiste ma al tempo stesso gli ricorda la sua natura caduca e lo mette faccia a faccia con la terribile coscienza che tutti, prima o poi, scompariremo.

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